di Walter La Gatta
Le emozioni primarie, come la gioia, la tristezza, la rabbia, il disgusto, l’interesse e la paura compaiono presto nello sviluppo umano e, di conseguenza, anche se presuppongono un’attività cognitiva, non hanno la necessità che si sia sviluppata una solida consapevolezza di sé. Le emozioni secondarie invece, come nel caso della vergogna, del senso di colpa e dell’orgoglio, sono emozioni più complesse, in quanto sono tutte legate alla percezione di sé: per questo sono state definite anche “emozioni dell’autoconsapevolezza” (Lewis, 1992, Tangney, Fischer 1995), “emozioni “sociali” (Barrett, 1995) o “emozioni interpersonali” (Battacchi 2000).
Non si prova l’emozione della vergogna se non quando si confrontano le proprie azioni con dei valori e modelli di comportamento, personali o altrui: più si è capaci di concentrare l’attenzione sul proprio comportamento, di giudicarlo in base a specifici parametri, più si accresce la possibilità di percepire l’emozione della vergogna. Tutti provano vergogna, perché è impossibile rimanere coerenti con sé stessi in tutte le occasioni o rispettare alla lettera le aspettative che gli altri hanno nei propri confronti: ci si vergogna dunque per qualcosa che si è commesso, per ciò che si è, per ciò che si ha (o non si ha!), per i propri pensieri, le proprie emozioni, il proprio corpo, ecc. La vergogna può riguardare il passato, il presente e il futuro.
Il sentimento di vergogna nei confronti di ciò che ha a che fare con la sfera sessuale si chiama “pudore”. Con questo termine si intende un atteggiamento di naturale riserbo, morale o fisico, verso tutto ciò che è considerato “indecente”. Il pudore si esprime attraverso il rifiuto di evocare a qualcuno i dettagli della propria vita intima e sessuale, o nel proporre il proprio corpo coperto, in modo da non turbare gli altri, o non sentirsi violati dallo sguardo altrui. Il contrario del pudore è l’esibizionismo.
Di pudore si parla già nella Bibbia, ma anche nell’Odissea, a proposito della vicenda di Ulisse e Nausicaa, quando Ulisse si sveglia su una spiaggia sconosciuta, al suono di voci femminili e si copre gli organi genitali con delle foglie, per non presentarsi nudo alla principessa.
Questa antichissima storia ci dimostra che il pudore non è un fenomeno solo femminile, visto che anche un uomo come Ulisse, oltre tutto un eroe, non ne è immune.
Secondo Hegel il pudore rappresenta lo sforzo dell’essere umano, fornito di coscienza della propria diversità, di nascondere l’animalità e le parti del corpo che esprimono tali funzioni. La vista di queste parti diventa intollerabile, in quanto inconciliabile con l’essenza spirituale che lo caratterizza. In questo senso dunque il pudore sarebbe una sorta di abito che copre la scimmia nuda.
Il filosofo fenomenologo Max Scheler nel suo testo “pudore e sentimento del pudore”, scritto fra il 1912 e il 1916, lo definisce un “sentimento vitale”, una “forza naturale” che ha una potere unificante rispetto alla sensorialità disordinata. Il pudore comporta infatti “un ritorno dell’individuo su se stesso”, una rinuncia all’espansione verso l’esterno, una sostituzione del pensiero con l’azione.
Il pudore evidenzia la doppia appartenenza dell’essere umano: da un lato è biologicamente parte del mondo animale, dall’altro la sua componente spirituale l’avvicina alla divinità. Né l’animale, né Dio provano pudore: l’unico che lo prova è l’uomo, in quanto ponte fra dimensione corporea e dimensione spirituale dell’esistenza.
Come sottolinea Max Scheler tuttavia, il pudore è un abito più mentale che fisico. Per fare un esempio, vi sono donne che in alcune tribù africane sono praticamente nude dal mattino alla sera e non si sentono in imbarazzo, perché quelle sono le abitudini della propria tribù. Quando queste donne vengono vestite, esse provano il senso del pudore, perché sono traumatizzate dal cambiamento delle proprie abitudini.
Il pudore in effetti cambia secondo le latitudini, ma anche rispetto ai tempi. Nella nostra società questo sentimento sembrerebbe ormai scomparso, messo al bando da una società che spinge a mostrare e a vedere tutto (si pensi a tutto quanto si può osservare in un reality). Al di là dell’esibizionismo più sfrenato, del corpo e della sessualità, ciascuna persona, emulando Amleto, quando dice “io ho dentro ciò che non si mostra”, continua a portare qualcosa di segreto in sé, che non desidera rivelare ad altri.
Può trattarsi di un’imperfezione, una colpa, o anche qualcosa che crea profondo imbarazzo, come lo sono sempre più spesso i sentimenti..
Oggi siamo infatti arrivati al paradosso che è più facile fare sesso con uno sconosciuto che rivelare a qualcuno di provare un sentimento d’amore nei suoi confronti: questo mette davvero in imbarazzo, non l’andarci a letto dopo un’allegra bevuta…