Il camice sul cappotto per il freddo, non dovuto alle necessità del luogo ma alla reale mancanza di riscaldamento, le mani dietro la schiena, in silenzio, guardando, mentre con eleganza e signorilità l’anatomo patologo si destreggia fra organi e visceri per poi finalmente mostrare, soddisfatto, la causa della morte dichiarando perfetto il quadro morboso e commentando compiaciuto: ”una bella cirrosi”.
In quel luogo gelido che ricordo privo di finestre, dove pendevano dal soffitto una lampada abbagliante e un tubo di gomma rosata che scendeva giù fino al marmo sul quale faceva colare un debole e costante getto d’acqua, la cirrosi epatica poteva essere apprezzata come bella e noi, apprendisti che religiosamente partecipavamo al rito iniziatico dell’autopsia, eravamo così partecipi della scena che la ritenevamo egualmente bella pur non avendo, per quel genere d’opere, alcuna competenza artistica. Ma condividere il godimento estetico suscitato da quel fegato deforme significava dimostrare d’essere realmente ciò che il camice rappresentava, mentre la tragicità e lo squallore della stanza non facevano altro che rinforzare il convincimento di avere libero accesso ai misteri del vivere e del morire. Che la cirrosi non potesse essere bella, non era assolutamente possibile, l’osceno non era percepibile.
Le professioni hanno un loro codice di bellezza e il clinico, medico o psicologo che sia, sembra non poter magnificare altro che meccanismi patogenetici, sintomatologie, terapie e, ci si augura, guarigioni. Il pericolo è di rimanere vincolati a quegli estetismi così come da qualche tempo sembra avvenire nel nostro ambito professionale. I successi consentiti dal perfezionarsi delle tecniche chirurgiche, l’efficacia sempre maggiore dei farmaci che contrastano il deficit erettile, ma anche i risultati lusinghieri di psicoterapie brevi e mirate hanno dato luogo ad una sorta di euforia estetica. Vengono contati gli impotenti e pur di mantenere alte le cifre si fanno proiezioni che comprendono i sempre più numerosi ultraottantenni, si valutano gli incassi derivati dalla vendita del sildenafil e ci si rammarica perché siamo fra i paesi dove si vende meno; altrettanto dicasi delle protesi – negli Usa ne vengono inserite 20.000 all’anno da noi solo 7-800 – e ci sentiamo, come nel dopo guerra, il solito paese povero. Comunque, anche se da noi le cose non vanno bene possiamo consolarci perché nel mondo (in quello occidentale) il Viagra è stato iscritto fra le cento scoperte del XX° secolo. Che bello!
Impegnati a godere dei nostri estetismi professionali dimentichiamo che malattie e terapie sono prodotti culturali. Se oggi si attuano tecniche chirurgiche che potevano essere realizzate anche trent’anni addietro, se solo di recente farmaci noti da tempo (vasodilatatori, apomorfina) sono stati oggetto di studio e quindi di utilizzazione in ambito sessuologico, è perché in termini di mercato è aumentata la domanda, in termini clinici sono aumentati i sofferenti e in termini sociologici l’homo faber è in profonda crisi. Il secolo del viagra è quindi anche il secolo dell’impotenza.
I successi, presenti ma anche solo sperati, delle odierne terapie sono lo specchio degli insuccessi dell’uomo contemporaneo, la virilità intesa come efficienza sembrerebbe essersi avviata inesorabilmente sulla via del tramonto. Il fantasma dell’impotenza è sempre più presente, la prestanza erotico-sessuale è compromessa anche quando non ci si espone a prove avvilenti, è stata infatti individuata ed assunta come dimensione clinica, la sindrome dello spogliatoio: gli uomini si sentono impotenti anche solo a guardarsi nudi.
Sildenafil, apomorfina, e quant’altro sono impalcature di sostegno per una costruzione fatiscente che merita forse di essere abbandonata. Invece di restaurare una virilità fondata sul potere del fare e quindi dell’efficienza e della prestazione è forse più opportuno rinnovarsi evolvendo verso il potenziamento del sentire e del relazionare. La sessualità efficiente e predatoria può lasciare il terreno allo scambio, al gioco, al piacere di esserci.
Questo significa anche che il professionista riesca ad evitare la trappola preparata dal suo codice estetico, il fascino dell’evento patologico e la magia della cura gli impediscono infatti di guardare oltre.
All’ottocento, secolo della virilità, ha fatto seguito un novecento, secolo della svirilità. Possiamo sperare in un diverso duemila? Forse, ma perché ciò avvenga dovremo fra l’altro comprendere che non c’è nulla di bello in una cirrosi….
Marzo/Aprile 2001 –Anno IX- n° 2
In “Frammenti di Sesso” CIC, 2005