09 - 01 - 1997

Abbiamo cominciato a sospettare della realtà obiettiva e universale del corpo quando dagli studi condotti sull’atlante di anatomia siamo passati al tavolo settorio e ci siamo trovati costretti a dimensionare diversamente le immagini che l’elaborazione grafica aveva reso intelligibili e didatticamente efficaci.

Ciò che sul testo appariva chiaro e distinto, sul “preparato” affidato alle esercitazioni degli studenti risultava confuso e non facilmente identificabile. Successivamente l’occasione che ci permise di vedere le tavole con le quali Vesalio illustrò i suoi studi, ci diede una ulteriore dimostrazione di come il corpo anatomico che pensavamo unico, potesse essere variamente manipolato dal disegnatore e quegli scheletri, tristi e pensosi, che illustrano di sé le varie parti, ci apparvero ancora un affronto all’idea che il corpo fosse comunque uno.

Per non dire poi della sorpresa nel constatare che nella stessa opera del Vesalio e per i due secoli seguenti i genitali femminili venivano rappresentati in maniera assolutamente simile a quelli maschili: ovaie-utero-vagina erano disposte in maniera da comporre una figura del tutto sovrapponibile al complesso testicoli-pene. Non solo a quell’artificio si aggiungeva spesso un ulteriore elemento di confusione: nelle didascalie infatti le ovaie venivano definite testicoli delle donne.

Se il corpo nella sua dimensione più oggettivabile, ovvero il corpo anatomico, poteva prestarsi a così diverse rappresentazioni ci potevamo aspettare che gli altri corpi quello che ciascuno di noi vive come proprio e quello che la cultura indica come riferimento normativo dovessero a maggior ragione subire manipolazioni individuali e collettive diverse. Ma la nostra buona formazione medica non consentiva dubbi il corpo comunque doveva essere uno per tutti. Se poi qualche paziente ne dava una interpretazione assai personale si tentava di ricondurlo alla ragione. Così chi lamentava di avere il pene piccolo o chi temeva che la vagina si sarebbe lacerata al primo rapporto, otteneva spiegazioni scientifiche che, documenti alla mano, volevano dimostrare l’infondatezza di quei singolari pensieri.

Ma l’ingenua, semplicistica e insieme rassicurante convinzione che il corpo fosse certamente uno non doveva durare a lungo. La sua valenza simbolica e quindi il suo disporsi ad essere variamente pensato ed interpretato si è imposta sempre più prepotentemente per cui la verità dei nostri pazienti ha prevalso sulla convenzionale certezza del dato scientifico. Per queste ragioni quando negli ultimi anni leggiamo che il corpo è una costruzione sociale e quindi che ciascuna cultura e ciascuna persona lo interpreta e lo rappresenta in maniera differente, ci sentiamo soddisfatti perché ciò conferma quella molteplicità di corpi a cui la pratica clinica ci aveva abituato, ma ci sentiamo anche tranquillizzati come se avessimo avuto bisogno di una autorizzazione per liberarci da quella convinzione di obiettività e universalità che i nostri atlanti e i nostri studi avevano determinato.

Tuttavia, nonostante ciò completamente tranquilli non lo siamo perché, forse per l’entusiasmo di aver individuato nuove verità, questa idea del corpo come costruzione sociale viene anche estremizzata enfatizzando il significato della costruzione quasi che il corpo e le sue funzioni non avessero più alcuna consistenza per cui da uno il corpo diventa nessuno. In particolare le differenze uomo-donna vengono riferite alla sola elaborazione culturale come se il diverso sviluppo scheletrico-muscolare, le diversità morfologiche, le diverse funzioni riproduttive e quindi le diverse risorse e vincoli biologici non avessero alcuna influenza nel determinare la specificità della costruzione.

Sappiamo che la differenza è stata a lungo strumentale per giustificare il potere maschile (a cui erano riconosciute le risorse: attività, aggressività, forza muscolare) e la sottomissione femminile (a cui erano riconosciuti i vincoli: mestruazioni, gravidanza, passività, debolezza) e che la diversità è stata interpretata come diseguaglianza, ma non ci sembra che il maschiocentrismo possa essere abbattuto con la pretesa di misconoscere il corpo e quindi le sue funzioni sostenendo la irrilevanza delle diversità che risulterebbero solo da una particolare interpretazione culturale.

Il dibattito sul corpo sembra dunque rievocare le tesi pirandelliane sul valore relativo della verità e se, riproponendo il dubbio di uno dei suoi personaggi che non sapeva più se era uno, nessuno o centomila, riteniamo inevitabile rinunciare all’idea che il corpo sia uno, non vorremmo che fosse considerato nessuno, preferiamo essere centomila.

Gennaio/Febbraio 1997 –Anno V- n° 1

In “Frammenti di Sesso” CIC, 2005